Racconti di viaggio › Regione di Gomel

Maggio 2006

Rispetto al racconto presente sul vecchio sito ho apportato alcune modifiche "extra-viaggio".

Gomel – Ci sono arrivato dopo trecento chilometri di strada quasi sempre dritta e quasi sempre immersa nel niente pianeggiante della Bielorussia. Una continua linea verde di prati, alberi e pascoli intervallati dalla aree di sosta attrezzate (panchine, tavolini, bagni…) e da qualche stazione di servizio.
Ci sono arrivato di sera e l’impressione è stata quella di una città evacuata dopo un disastro atomico. Poche auto in strada, poche luci e nessuno in giro. Una pizza in un locale gestito da un italiano (come cavolo sarà finito lì…) e una notte in casa di una gentilissima famiglia del luogo.
Al mattino ho ritrovato una città più animata ma con una tristezza che si percepisce in modo nitido nei colori, nei movimenti della gente, nei rumori. Città brutta, tutta uguale, poco verde e tanti palazzoni. Brulicante di varia umanità il mercato, con bancarelle di ogni tipo, prezzi bassi, il cambio valuta in due roulotte (!!) e vecchiette a vendere i prodotti di una terra ancora contaminata.
Se non fosse una tappa di passaggio obbligata verso i villaggi dove vivono i bambini del progetto Chernobyl Gomel si potrebbe tranquillamente evitare. E’ un’impressione maturata dopo poche ore di visita ma non credo che una sosta più lunga avrebbe potuto influenzare il giudizio.
Tanto è vero che non ho fatto neppure una foto!

Vetka – Al confronto dei villaggi anche un paese come Vetka sembra una città, con le sue rotonde, i suoi palazzi e il suo mercato. Vetka fa da “frontiera” fra il reale e l’irreale, fra il normale e l’anormale, fra l’immaginabile e l’inimmaginabile.
A Vetka ci sono i palazzi dove vivono alcuni dei bambini del progetto Chernobyl, palazzi ai margini della strada principale ma ai quali si arriva solo con vialetti sterrati, palazzi tutti uguali fuori, tutti puzzolenti negli spazi comuni (ingresi, scale…) ma diversi nei vari, dignitosi e puliti appartamenti, dove ogni famiglia cerca di mettere un freno personale alla desolazione che la circonda.
A Vetka ci sono le strade minori, ovviamente sterrate: le case in legno si susseguono regolari e colorate, l’ordine prevale sul disordine, la dignità sull’abbandono ad una realtà dura, la felicità sulla tristezza. Strade che sono il regno dei giochi dei bambini e dove le auto hanno un ruolo marginale e di “disturbo” per chi rincorre un pallone o si rotola nell’erba.
A Vetka ci sono i negozi, la scuola, il telefono (ma non in tutte le case) e i monumenti sovietici.
A Vetka c’è un mercatino con negozietti in legno dove è facile trovare un sorriso o un mazzo di fiori da regalare.
A Vetka c’è una frontiera, che ho visto solo io, tra il passato e il presente, tra l’amore e la morte, sia pure solo figurata, tra la felicità dei bambini che giocano stringendo al petto un peluche regalato e la tristezza di altri bambini che non hanno peluche con i quali giocare.

I villaggi
I cartelli ai lati della strada sono perentori: vietato entrare nel bosco, zona contaminata. Finisce il bosco e iniziano i pascoli vicini ai villaggi, con le mucche che brucano tranquillamente l’erba verde (forse perché non sanno leggere e per loro i cartelli non valgono nulla).
I villaggi hanno nomi che sicuramente scriverò male (più o meno come si pronunciano): Staroe Sielò, Svetilovichi, Kasatskie Bolsuni….
Sono borghi di case in aperta campagna dove le vie hanno un nome ma non un cartello che lo indichi, dove agli incroci ci sono papere, oche e alberi caduti invece di pedoni, vigili e semafori, dove le matrioske dei mercatini girano, in carne e ossa, sotto forma di babuske (le nonne) che vanno alla messa, dove la legna da bruciare d’inverno viene ammucchiata davanti alla staccionata di casa e, soprattutto, viene presa dalle case abbandonate. Bruciandola si riscalda la casa nel lungo inverno, bruciandola si sprigionano di nuovo le particelle atomiche depositate nel corso degli anni post Chernobyl, bruciandola si brucia la salute di chi abita in casa….
Due cose non mancano mai: la sensazione di disperazione e abbandono e la statua di Lenin. Eppure la gente è cordiale, ti invita in casa, aiuta gli insoliti turisti italiani che cercano quella o quell’altra famiglia, gli animali non hanno paura dell’auto e la vita sembra sospesa in un eterno attendere.
A Svetilovichi abitano tanti bambini venuti a Prato: qualcuno sta bene, altri devono fare i conti con la mancanza dell’impianto di riscaldamento in casa , altri si cambierebbero volentieri con quest’ultimi anche solo per la possibilità di avere una bicicletta con la quale andare in giro o un’amica di fronte a casa con la quale giocare. I villaggi non sono grandi, ma in inverno le distanze sono ingigantite dalla neve e, per fare un esempio, per molti mesi la mia ultima bambina, la Vika, davanti alla finestra non avrà altro che una casa diroccata e una palazzina da ultimare in cui hanno trovato rifugio “avanzi” di vita come alcolizzati e disoccupati del luogo.
A Kasatskie Bolsuni c’è Andrey. E’ un posto che suscita tante domande: come ci sono arrivato? Come fa il postino a sapere che questa è la via tal dei tali? Come si fa a vivere di qui e di cosa si vive qui? Dov’è la scuola? A 7 chilometri?? E come fa Andrey ad andare a scuola?.
Arrivi e parcheggi l’auto: davanti c’è la Bielorussia, a destra la Russia, anche se l’impressione è che dietro il boschetto che vedi ci sia il Grande Burrone con la fine del mondo, dietro l’Ucraina con Chernobyl, a sinistra la casa del bambino.
La “qualifica” di casa viene mantenuta grazie alla struttura rettangolare con quattro mura, qualche finestra e un tetto. Dentro convivono almeno in quattro in poche stanze dall’arredamento essenziale e la pulizia mantenuta a dispetto dell’ambiente dona dignità a tutta la famiglia. Fuori è un caravanserraglio di animali, attrezzi agricoli arrugginiti e abbandonati, auto senza motore trasformate in pollaio, fango, fienile e baracche, pali della corrente già vecchi prima dell’esplosione nucleare di Chernobyl e presi a dimora da una coppia di cicogne.
I campi di patate sono al tempo stesso luogo di lavoro, negozio di alimentari, banca e parco giochi, il cavallo nella stalla è Mercedes, trattore e mountain bike, il puledro appena arrivato è triciclo, videogame, compagno di giochi e reddito futuro, il bagno è ripostiglio, baracca, toilette senza fogna e quindi concimaia per il campo di patate, che è al tempo stesso luogo di lavoro…….
Kasatskie Bolsuni è un “portatemi via con voi” implorato da Andrey che ti toglie il respiro, che ti fa sentire inutile agli occhi di un bambino che a nove anni pesa meno di venti chili, che ti strappa di dosso quel poco di tranquillità e di speranza che era rimasta dopo altri tremendi momenti precedenti. E’ la fine del mondo dietro ad un boschetto di betulle, è un “dopo questo non c’è più nulla” che ti obbliga a risalire in auto e a tornare verso Gomel, è una bugia (“torneremo a trovarti”) che rimpiangi di aver detto una volta tornato nella tua comoda casa.
E’ una vergogna della quale il comunismo, i leninisti e gli stalinisti dovranno rendere conto al mondo, un giorno; è la realtà per un bambino e la sua famiglia che mangiano, vivono, giocano e si vogliono bene in un campo di patate.
Kasatskie Bolsuni fa piangere, ancora, a distanza di mesi.